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Siamo uomini o caporali ?

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di Pasquale Lanna e Maurizio Ferrara – Commentatori dei media nazionali e locali, a vario titolo, hanno cercato di analizzare l’immane tragedia di lunedì scorso nel foggiano allorquando 12 persone, stipati in un furgone, hanno perso la vita in un tamponamento stradale mentre rientravano da una lunga giornata di lavoro nei campi per raccogliere i pomodori. Il fine è stato quello di far emergere le cause sociali di ciò che, in una diversa situazione, sarebbe stata considerata un’infame fatalità. Gli incidenti stradali non sono rari e, purtroppo, nella stessa giornata a Bologna un altro incidente ha procurato la morte di un uomo e 145 feriti con conseguenze collaterali ben più ampie del primo. Tuttavia, il maggior risalto mediatico dato al primo incidente non può passare inosservato, soprattutto oggi che, quando c’è di mezzo il colore della pelle, i “disinformatori” fanno a gara per sciorinare pagine e pagine di concetti, ipotesi, tesi e conclusioni nella speranza di carpire l’attenzione dei lettori e con essa la loro buona fede. L’analisi si è incanalata verso due sentieri sovrapponibili: il razzismo come deriva della nostra società ed il caporalato come sua manifestazione reale. Può essere, però, sufficiente far leva solo sul colore della pelle di quelle dodici sfortunate persone per analizzare la piaga sociale dello sfruttamento del lavoro? O in tal modo si riduce un grosso problema di sistema, che su tale sfruttamento si basa, per liquidarlo con la solita manfrina del “è colpa nostra”, o meglio, dei “razzisti” che non vogliono accogliere, né tantomeno integrare?

Uno dei sopravvissuti, Khadame Khoule, al Corriere della Sera ha detto: “per ogni cassone di pomodori raccolto ti pagano 3,5 euro. Io lunedì ne avevo fatti 11”. Undici cassoni per dodici ore giornaliere! Se andiamo di lusso e consideriamo 6 giorni di lavoro a settimana, fanno circa 1000 euro al mese per 12 ore di lavoro al giorno. Quasi il doppio delle ore lavorate da un italiano per un salario palesemente più basso. Appare subito evidente che è abusato lo stato di necessità di queste persone, stato che ovviamente accomuna i migranti di qualsiasi angolo della terra e che li rende disposti ad accettare una paga da fame pur di lavorare. Un ragazzino albanese di appena 16 anni nel 1994 disse: “Io non ho l’automobile, non ho il telefono, non compro vestiario, uso vestiti già usati, non ho divertimento e vivo in una casa con altri sette, otto, e a volte più di dieci albanesi, dividendo le spese di fitto e di cibo. I soldi risparmiati li mando ai miei genitori e all’unica sorella non sposata in Albania: senza di me non riuscirebbero a mangiare”. Il caporalato, ed in generale, il becero sfruttamento del lavoro, sono quindi fenomeni ben più secolari dei recenti flussi migratori, scevri pertanto da qualunque nesso con l’etnia, col colore della pelle e con la provenienza africana dello sfruttato. Aveva la pelle bianca Luca Savio, operaio di 37 anni morto a Carrara schiacciato da un blocco di marmo, mentre lavorava in un una cava con un contratto di soli 6 giorni. La sua morte, ridotta soltanto a mero problema di sicurezza, ha suscitato troppo poco scalpore e il popolo delle magliette rosse manco se l’è filato: l’oblio sarà il destino della sua tragedia, forse perché non faceva parte di uno di quei preziosi carichi di esseri umani che arrivano dal mare tanto cari a Papa Bergoglio ed alla sedicente sinistra italiana ed europea. In sostanza Il razzismo con cui il bla bla bla mediatico ci ha sfracassato i maroni non è condizione necessaria nei casi di caporalato e di sfruttamento in genere del lavoro e, pertanto, non può essere usato per spiegare le cause prime della situazione di precarietà in cui versavano i 12 sfortunati africani. Un disoccupato italiano è altrettanto vulnerabile proprio perché costretto in uno stato di necessità. Il loro numero è marginale solo perché, trattandosi di italiani, godono di una rete di protezione economica familiare costruita con lo stato sociale voluto dalla nostra Costituzione del 1948 ma, purtroppo, in via di dissoluzione a causa della nostra adesione al sistema dell’ “economia sociale di mercato fortemente competitiva” su cui si fonda l’Unione Europea.

Con tali presupposti è più consono ritenere il caporalato un fenomeno criminoso che attinge con particolare efferatezza al bene giuridico della dignità umana, giacché i lavoratori sono reificati a causa della loro stessa precarietà e sono considerati unicamente fattori materiali del processo produttivo. La personalità del lavoratore è completamente annichilita: egli è una res da sfruttare, da cui trarre un’utilitas, insomma una risorsa di boldriniana memoria. “Il pericolo di trattare il lavoro come una merce sui generis, o come una anonima «forza» necessaria alla produzione, esiste sempre, e specialmente qualora tutta la visuale della problematica economica sia caratterizzata dalle premesse dell’economismo materialistico”. Queste le parole di Giovanni Paolo II nella sua lettera enciclica “Laborem excercens”, che avendo ben chiare le reali caratteristiche del problema, avvalora quanto qui si sostiene. Ma se si considera anche il suo pensiero, unitamente a quello di Benedetto XVI, sul diritto ad emigrare quale scelta e non quale necessità, comunque subordinato al “diritto primario dell’uomo di vivere nella propria patria”(1), appare in tutta la sua evidenza la sostanziale differenza con la posizione di Bergoglio che riduce il tutto alla questione morale dell’accoglienza alla stregua di un medico che si preoccupa della febbricola in un malato terminale di cancro!
Dall’altro lato, l’opinione pubblica è stata indotta ad immaginare i datori di lavoro, incappucciati come membri del Klu Klux Klan, che da sporchi razzisti neofascisti sfruttano le persone di colore per i loro fini di profitto. Tale chiave di lettura è però semplicistica ed approssimativa ed un’analisi più approfondita rivela piuttosto la loro natura di vittime del sistema più che di carnefici. È sufficiente leggere le dichiarazioni del sig. De Vito, datore di lavoro di alcuni dei lavoratori morti a Foggia, che in un’intervista rilasciata a Repubblica, dopo aver fatto presente che i suoi lavoratori erano regolarmente inquadrati, tenta di mettere la pulce nell’orecchio ai lettori dicendo: “chi si chiede come sia possibile che la salsa costa 40 centesimi?”. Tale quesito è emblematico. È necessario sapere che il prezzo della salsa che giunge sulle nostre tavole è purtroppo determinato con un perverso meccanismo: la cosiddetta gara a doppio ribasso. La GDO (Grande Distribuzione Organizzata) chiama a raccolta attorno a una piattaforma virtuale i propri fornitori, chiedendo loro di avanzare un’offerta per una elevata quantità del prodotto in questione. Sulla base dell’offerta più bassa la GDO convoca successivamente una seconda asta online che in poche ore, chiama i partecipanti a rilanciare per ribassare ulteriormente il prezzo di vendita di quel prodotto. Le imprese agricole, stritolate dalle caratteristiche di immediata deperibilità del prodotto, dalla stagnante domanda interna e dalla spietata concorrenza di prezzo, finiscono per essere anch’esse ridotte in uno stato di necessità; vittime della forte competitività di cui si nutre il sistema economico neoliberale, per sopravvivere, si vedono costrette a continue riduzioni di costi. Naturalmente quello del lavoro, che in agricoltura costituisce la parte più rilevante, non si sottrae a questo darwinismo economico: i datori di lavoro, pertanto, sono tentati da occasioni di risparmio e risucchiati nel vortice di distruzione dei diritti dei lavoratori, punta dell’iceberg della attuale macelleria sociale. Ed infatti Benedetto XVI, nell’Enciclica “Caritas in veritate”, ha affermato che i processi di globalizzazione tipici del sistema neoliberale degli ultimi decenni “hanno comportato la riduzione delle reti di sicurezza sociale in cambio della ricerca di maggiori vantaggi competitivi nel mercato globale, con grave pericolo per i diritti dei lavoratori, per i diritti fondamentali dell’uomo e per la solidarietà attuata nelle tradizionali forme dello Stato sociale”.
Un problema dunque endemico al sistema economico attuale che, con l’arrivo di tanti migranti, si è soltanto amplificato. Infatti, nel 2011, nella relazione introduttiva ad una proposta di legge al Senato sul riordino della normativa penale sull’intermediazione illecita e sullo sfruttamento del lavoro si legge della “particolare diffusione del fenomeno del caporalato nei settori dell’edilizia e dell’agroindustria, dove un numero sempre maggiore di operai e braccianti, italiani e migranti, è sottoposto al ricatto e allo sfruttamento da parte di caporali, spesso al soldo di organizzazioni criminali, ridotti in condizioni di vera e propria schiavitù”. Non si tratta più, si rileva, di un fenomeno rubricabile a questione regionale, endemico, ma di una realtà pandemica, “radicata e strutturata su tutto il territorio nazionale”. Per tale motivo, il Governo Berlusconi con il decreto legge n. 138/2011, introduceva un nuovo delitto e nuove sanzioni penali per il caporalato. Tuttavia la nuova fattispecie da un lato punisce il reato proprio dell’intermediario, mentre dall’altro, per il datore di lavoro, prevede la forma molto meno stringente del concorso di persone, logica conseguenza dell’asserito stato di necessità in cui anch’esso versa.
Il re è nudo! Ecco allora il colpo di genio dei neoliberisti “turboglobalisti”, lo stratagemma di fingere naufragi, che per scelta d’azione si possono veramente verificare con tanto di morti, per far presa sulle anime e sulle coscienze delle persone, alle quali viene pian piano instillato il senso di colpa per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle vere cause del problema.
I braccianti stranieri, infatti, costituiscono “l’esercito industriale di riserva”, manodopera a basso costo perfettamente conosciuta nella scienza economica, di cui il capitalismo ha bisogno per la sua stessa sopravvivenza. Cos’è l’attuale caporalato se non una forma di schiavismo globalista? La storia del capitalismo degli ultimi decenni ci insegna che esso prescinde dal colore della pelle; oggi gli africani, per situazione contingente, hanno solo sostituito altri sfruttati. Favorire l’immigrazione incontrollata di manodopera sottopagata, importando schiavi senza tutele e diritti per creare concorrenza nel mercato del lavoro rendendolo flessibile, è il vero razzismo: lo schiavismo del terzo millennio che per le mutate caratteristiche sociali, culturali, di mobilità delle masse e dei contesti internazionali veste la maschera del buonismo con abitino rosso e mani dipinte in tinta.

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(1) Discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni del 1998

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Metodo Katia Salzano: la coach del dimagrimento festeggia 20 anni di carriera

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Grandi festeggiamenti a Caivano (NA) per i 20 anni di attività del centro tecnico sanitario
“Dimagrire Mangiando – Metodo Katia Salzano”.
Un traguardo importante per la dottoressa Katia Salzano, ideatrice del metodo omonimo, che ha voluto condividere questo momento speciale con un party esclusivo a cui hanno partecipato volti noti del mondo dello spettacolo come Valeria Marini, Federico Fashion Style e Luca Sepe.

La serata si è svolta in un’atmosfera di grande gioia e convivialità, tra musica, brindisi e
momenti di puro divertimento, con la visione di un video che ha raccontato i 20 anni di carriera professionale mettendo in evidenza le testimonianze, i programmi televisivi e gli eventi realizzati per i successi raggiunti.
Nel video i format su RealTime, la partecipazione all’Osservatorio della Buona Salute in Campania e gli approfondimenti giornalistici sulla sua professione.

La dottoressa Salzano ha voluto ringraziare così tutti coloro che hanno contribuito al successo
del suo centro, dai clienti ai collaboratori, sottolineando l’importanza di un approccio sano e
consapevole al benessere del corpo e della mente.
“Sono davvero emozionata per questo traguardo”, ha dichiarato la dottoressa Salzano. “Vedere
così tante persone qui a festeggiare con me significa che il mio metodo funziona e che aiuta le
persone a stare meglio con se stesse. In questi 20 anni ho avuto la possibilità di aiutare tante
persone a raggiungere i loro obiettivi di peso forma e a migliorare la loro qualità di vita. È questo che mi spinge a dare sempre il massimo ogni giorno”.

Il “Metodo Katia Salzano” si basa su un’alimentazione sana e equilibrata, abbinata a trattamenti specifici e all’attività fisica. Un approccio completo che permette di ottenere risultati duraturi e concreti, senza rinunciare al gusto e al piacere del cibo. Al centro dell’attenzione anche la tecnologia ReSystem, che consente una accelerazione del metabolismo, aumento della massa muscolare, abbassamento della pressione arteriosa, miglioramento dei disturbi circolatori, disintossicazione dell’organismo e riduzione dello stress.

Il tutto comprovato da forti evidenze scientifiche: infatti la tecnologia ReSystem (riconosciuta come dispositivo medico dal Ministero della Salute), brevettata dalla Dott.ssa Katia Salzano, con un’esperienza ventennale nel settore, attraverso uno studio, in collaborazione con il Consorzio Interuniversitario INBB, ha consentito di monitorare l’andamento di metaboliti presenti nel sudore durante il periodo del trattamento, delineando una impronta digitale di ogni paziente utile per la valutazione a livello molecolare dello stato di benessere.
“Vorrei ringraziare tutti coloro che da vent’anni hanno scelto e continuano a scegliere il mio metodo”, ha concluso la dottoressa Salzano.
“Questo è solo l’inizio di un nuovo viaggio, ricco di sfide e obiettivi da raggiungere. Continuerò a lavorare con passione e dedizione per aiutare le persone a stare bene con se stesse e a raggiungere un vero e proprio cambiamento nello stile di vita, una vera rinascita”

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Attualità

Malasanità, morto di epatite C dopo trasfusione: la situazione

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L’ospedale Piemonte e Regina Margherita di Messina è stato condannato al risarcimento dei danni per una grave patologia epatica evoluta a seguito di un intervento chirurgico, a favore degli eredi di una vittima di malasanità.

Stando alle prime informazioni, il paziente durante la sua degenza presso l’ospedale, è stato sottoposto ad un intervento chirurgico di emicolectomia destra e ha ricevuto un’emotrasfusione che gli ha fatto contrarre il virus HCV, che si è poi evoluto in cirrosi epatica.

Nonostante le precedenti decisioni sfavorevoli del Tribunale di Palermo e della Corte d’Appello, ritenendo prescritto il diritto al risarcimento, la Corte di Cassazione ha ribaltato tali sentenze, riconoscendo la non prescrizione del diritto al risarcimento dei danni.

Infatti nel caso del paziente, i sintomi clinici dell’infezione da HCV si sono manifestati solo dopo circa 20 anni dalla degenza, con un progressivo aggravamento della patologia che ha portato al decesso. Pertanto dopo una lunga battaglia legale ingaggiata dal danneggiato e dai suoi eredi, è stato riconosciuto il risarcimento di oltre un milione di euro.

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Giugliano, denunciato per aver usufruito dell’auto del padre morto per falsi ricorsi: i dettagli

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Maxi operazione della Polizia locale di Giugliano, che ha denunciato per falso e sostituzione di persona un cittadino del posto, in quanto firmava ricorsi alle contravvenzioni degli agenti per conto del padre deceduto.

In particolare è emerso che l’uomo usufruiva non solo dell’auto del defunto, ma presentava anche ricorsi ai verbali con firme false. Inoltre gli è stata ritirata anche la carta di circolazione e inviata alla Prefettura.

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