C’è sempre un momento, nella storia di un Paese, in cui la libertà si misura nei dettagli. Una firma, un timbro, un “non ammissibile”. E in Italia, dove la burocrazia ha l’eleganza dei sofismi, anche la censura indossa spesso l’abito grigio della circolare ministeriale. È accaduto di nuovo. Il ministero dell’Istruzione ha annullato il corso “La scuola non si arruola”, previsto per il 4 novembre, data simbolica in quanto giornata dell’Unità nazionale e delle Forze Armate.
L’incontro era organizzato, tra gli altri, dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole. Un dibattito aperto, civile, dichiaratamente pacifista. Dunque, per qualcuno, potenzialmente pericoloso. La motivazione ufficiale suona innocua, quasi grigia: “Il ministero non vieta nulla, ma non consente l’esonero dal servizio, e dunque a spese del contribuente, per un’iniziativa priva di requisiti di riconoscimento formativo”. Tradotto, non è censura, è solo una questione di regole. In Italia la censura non ha mai bisogno di divieti espliciti. Le basta schermarsi dietro le regole. È la versione 2.0 del silenzio amministrativo. Una stretta gentile, un’interpretazione e la libertà resta lì, formalmente intatta, ma sostanzialmente compressa.
Il punto, però, non è burocratico ma politico. E culturale. Perché negare valore formativo a un corso che propone una riflessione critica sul rapporto tra scuola, guerra e potere significa stabilire, implicitamente, che quel tema è “fuori campo”, non pertinente, inappropriato. Ma se parlare di pace è “estraneo agli ambiti formativi dei docenti”, allora cosa resta della libertà di pensiero? L’educazione civica ridotta a cerimoniale, la storia amputata dei suoi conflitti morali, la coscienza sostituita dal protocollo. È la neutralità che diventa ideologia. Una neutralità che seleziona, approva, cancella.
E ciò che preoccupa non è solo l’episodio, ma il principio che sdogana. Che esista una gerarchia dei temi ammissibili. Si può parlare di coding, di startup, di sostenibilità, di tutto ciò che profuma di neutralità produttiva. Ma non di pace, non di disarmo, non di militarizzazione. Come se la scuola dovesse formare buoni professionisti, non cittadini pensanti. Eppure, la Repubblica non si fonda sul merito tecnico, ma sulla consapevolezza civile. Forse è proprio questo che spaventa. Un docente che spiega la pace è più sovversivo di cento assemblee studentesche. Perché insinua il dubbio, il grande nemico dei sistemi che vogliono l’obbedienza travestita da ordine. E il dubbio, lo sanno bene i ministri di ogni epoca, è contagioso: una volta entrato in classe, non lo si ferma più con un decreto. Chi teme una lezione sulla pace teme in realtà la lezione della storia. Quella che insegna che le guerre nascono dall’ignoranza coltivata, dal conformismo di massa, dal silenzio degli intelligenti. E che una scuola che non può più interrogare il potere finisce per educare alla sua accettazione. Così, mentre il ministero rivendica la sua “neutralità”, la scuola resta il bersaglio più facile di un potere che non sopporta la libertà quando smette di essere ornamentale. Ma un Paese che censura la riflessione critica sulla guerra, proprio nel giorno in cui dice di celebrarne la fine, non ne esalta l’unità ma ne misura la paura. E se il ministero vuole docenti obbedienti, si rassegni. La scuola non si arruola. Al massimo, insegna a disertare l’ignoranza.