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Le verità di Caracas: “Il film mi offende profondamente” Ottaviano contesta come viene rappresentato nel film di Marco D’Amore

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Caracas, al secolo Ferdinando Ottaviano Quintavalle, è arrivato a Napoli ragazzino con il fratello e la madre che voleva tornare nella sua città dopo anni vissuti in Venezuela. La sua vita si intreccia con quella della metropoli partenopea, così diversa da quella descritta dalla madre.

La delusione iniziale per una città che non si mostra affatto accogliente e generosa, è superata man mano grazie ad un’insaziabile curiosità e attenzione. Cresce mentre la politica si combatte per strada. Si innamora quando l’eroina faceva strage dei più fragili, come la sua donna. È fotografo e giornalista negli anni ’80, quelli più incandescenti di Napoli, sotto ogni profilo, e lavora per le più importanti riviste nazionali.

Conosce i protagonisti della cultura e li affascina: Caracas non è una persona comune, scontata, banale. Spinge a fare i conti con se stessi, le proprie convinzioni e i propri pregiudizi. Spinge a guardare e a vedere con occhi nuovi.

Di lui scrive per primo Peppe Lanzetta, in un racconto, e poi Ermanno Rea in un libro denso.

Io lo incontro per caso nell’unico posto in cui sarebbe potuto essere possibile, una delle stradine che come vene si dipanano dal grande cuore malato di Piazza Garibaldi. È incuriosito dalla mia fotocamera. Iniziamo a parlare: ha una competenza incomparabile e mi fa dono del più importante consiglio tecnico che abbia mai ricevuto in tema di fotografia. Lo rincontro dopo mesi, ancora per caso: compriamo scarpe da trekking urbano nello stesso negozio. Lì lascerà per me un altro dono: Grand Hotel Ferrovia, una raccolta pubblicata da Tullio Pironti di sue foto che nella loro cruda poesia tolgono il fiato, lo sguardo come un abbraccio a chi soffre tra l’indifferenza della città che brulica di luci e affari.

Caracas, il vero e unico Caracas, non è persona che può essere rinchiusa in una definizione, né può essere descritto per antinomia. Soprattutto non ha niente a che vedere col personaggio messo in scena da Marco D’Amore nella doppia veste di attore e regista. Non tanto per la fisicità, pure così diversa – Caracas è altissimo e magrissimo – ma per l’essenza che il film travisa e snatura in una sintesi tra folklore gomorroide e nazi-style che indigna lui e quanti lo conoscono.

Tra gli ultimi grandi idealisti rivoluzionari che hanno attraversato la trasformazione della realtà in immagine conservando indenne lo spirito, Caracas concilia in sé l’inconciliabile: ha un passato giovanile in Ordine Nuovo e amici stetti che sono stati protagonisti delle frange più estreme della sinistra di quegli anni lontani. Odia le regole, ma non tradirebbe mai quelle in cui crede. Ha abbracciato l’Islam con il nome di Abdullah, ma per il suo modo di porsi verso gli ultimi, in particolare di quelli che vivono intorno alla stazione centrale, a Napoli è conosciuto anche come “Il Cristo della Ferrovia”.

Gli ultimi della zona della Ferrovia, con cui vive, per Caracas sono semplicemente persone, e il colore della pelle non ha mai contato. Una delle sue storie più intense è stata con una prostituta di colore. Impossibile, sapendo chi è e conoscendo la sua storia, poter pensare a lui come al Caracas inscenato da D’Amore.

Nonostante un lungo periodo vissuto in Egitto, oggi come nei lontani anni ’80 del secolo scorso, in zona Ferrovia che percorro un po’ con lui, tutti – per strada, nei bar, nei negozi – lo salutano non come conoscente, ma fratello.

L’amicizia con il giornalista Ermanno Rea è storia. Il libro che ne è nato, dopo anni di frequentazione, con le sue 357 pagine (tante ne conta la nuova edizione uscita col lancio del film) non basta ad esaurire il racconto dell’uomo Caracas e neanche della sua storia. Quel libro si ferma a quando Caracas aveva 55 anni. Oggi di anni Caracas ne ha 74.

L’amicizia così importante tra Rea e Quintavalle si spegne dopo la pubblicazione del libro “Napoli Ferrovia”: Rea si concede una licenza letteraria nel racconto della storia di Caracas con la donna, tossicodipendente, che ama e che non può salvare. Una scena nata dalla penna di un grande narratore che Caracas non accetta e non può perdonare, perché fa di lui ciò che non è e non potrebbe mai essere.

Per questo è inevitabile il ripudio del film che ha per titolo il suo nome, attinge al libro che racconta la sua vita, è girato nei suoi luoghi, ad iniziare dal campo di paracadutismo dove ha imparato a volare.

Caracas non odia, disprezza. Non si arrabbia, si indigna. Quando agisce non è mai d’istinto, ma per principio. Per questo rifiuta i soldi di un’importante rivista che vuole le sue foto di Maradona per denigrare il Pibe e i napoletani. Per questo cede a un settimanale il suo straordinario reportage sul Mozambico con la sola precisa condizione che l’articolo denunci i responsabili di quella tragedia: il servizio non sarà mai pubblicato.

“Sono rimasto di sasso – dice – quando ho visto la scena dello scrittore che cade ubriaco sotto ad un tavolo e poi si rialza sbiascicando in napoletano. E’ falso e offensivo”. Non si smentisce, Caracas: per prima cosa difende Rea che non è più e non può parlare.

Niente in Caracas è apparenza, mistificazione, manipolazione. Caracas non mente. Neanche quando il racconto è doloroso o compromettente. E’ come i suoi grandi occhi tondi: chiaro, limpido, cristallino. Per questo è bello ascoltarlo. Ed è inevitabile chiedersi come sia stato possibile che Marco D’Amore non abbia sentito la necessità quantomeno di conoscerlo, se non di parlare con lui: alla preview al cinema The Space a Napoli, l’attore-regista ha infatti dichiarato di non aver sentito il bisogno di incontrare il vero Caracas come per diventare Ciro “L’immortale” Di Marzio in Gomorra non era andato a spacciare a Scampia. Ha finanche – come racconta Caracas senza nascondere la meraviglia – rifiutato di far accedere Abdullah Ferdinando Ottaviano Quintavalle al set, dove era arrivato per curiosità.

Il sogno di Caracas

Duro nelle sue convinzioni, Caracas non crede al pentimento e non ha rimpianti. Ma quando gli chiedo se ha un sogno, lo rivela nella video-intervista dopo un lungo silenzio, con la voce rotta dall’emozione.

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