Tutti sembrano prendere a idolo solo i personaggi delle fictions, ma ci sono stati personaggi nella storia di Napoli che hanno cambiato davvero la realtà del popolo. Non tutti li conoscono, per questo abbiamo pensato di elencarne dieci scegliendo quelli che per noi sono stati i più importanti.
Dialogo con Wanda Marasco, unica scrittrice campana nella dozzina dei finalisti del Premio Strega con il romanzo Di spalle al muro, edito da Neri Pozza.
Un dramma appassionato che scuote l’anima. Una storia scritta in una lingua di eccelsa bellezza, che scava nel profondo, con tratti barocchi e felici innesti di un dialetto che graffia.
La penna di Wanda Marasco palpita, commuove ed abbraccia. Per sempre.
Che valore ha oggi la scrittura?
Il valore della scrittura, credo, non è mai mutato nel tempo. É volontà di esprimersi, testimonianza, comunicazione. Da un libro necessario nasce una fluenza di pensiero e di creatività. Per me, ortesianamente, la scrittura è “casa”, è la dimensione attraverso cui ricreo miserie e bellezza della creatura umana.
Quando e come nasce l’idea di raccontare la storia di Ferdinando Palasciano, medico e senatore del Regno d’Italia, condannato a morte e poi graziato perché decise di curare anche i nemici in guerra?
L’idea di narrare la storia di Ferdinando Palasciano è nata molti anni fa mentre scrivevo Il genio dell’abbandono. Cominciai a studiare, a indagare. Scoprii che Palasciano, uomo profondamente etico, negli ultimi anni di vita era impazzito. In un certo senso quel racconto mi aspettava. La torre che lui fece erigere sulla collina di Capodimonte è un’immagine che ha accompagnato gran parte della mia vita, una “quinta dell’anima” come qualcuno ha detto. È stato naturale, dunque, scegliere di scrivere la storia di chi l’aveva abitata. Inoltre Ferdinando Palasciano e Gemito (lo scultore pazzo de Il genio dell’abbandono) avevano in comune alcune ferite, soprattutto la conflagrazione della mente causata da dolori e disillusioni.
Nel romanzo penetri a fondo le sfaccettature della psiche umana. Esiste un “metodo” per riuscirci così bene che hai fatto tu?
Il metodo per penetrare nella psiche umana viene dalle letture e dalle esperienze di vita. Nella realtà ho incontrato Chisciotte, Sigismondo, Amleto… Le loro angosce affiorano in tanti uomini, ogni volta che la vita diventa distorsione e illusa battaglia. E vengo dalle maschere del teatro, quelle che sanno come invertire la logica comune, che esprimono la lacerazione tra la ratio, il cuore e la realtà. Sono poi sostenuta da un’istintualità poetica che mi aiuta a scavare nella fragilità dell’uomo.
La storia è raccontata dalla moglie del medico, Olga Pavlovna, nobile russa trapiantata a Napoli. Nel suo personaggio si spalancano le pieghe dell’universo mentale ed emozionale femminile, anche quelle più arcane. Quanto c’è di te in Olga?
C’è molto di noi in ogni cosa che scriviamo. A Olga Pavlovna ho prestato parte della mia psiche. Le ho fatto narrare altezze e cadute, l’amore che confessa i desideri e le ferite. Ho completamente inventato la sua vita interiore e l’infanzia in Russia basandomi sulla memoria delle mie esperienze e dei grandi archetipi provenienti dalla letteratura e dal teatro.
Fa da sfondo al romanzo la città di Napoli del secondo Ottocento, ma anche vero theatrum mundi, proprio come è oggi. Che rapporto hai con la tua città?
Napoli, con la sua bellezza e le sue secolari piaghe, fa da sfondo al racconto. Questa città, luogo dei luoghi e allo stesso tempo un non-luogo, come spesso si dice, per me ha sempre rappresentato la meccanica di un inferno animato dall’idea del paradiso da distruggere. È un paese greve, macerato da chi lo divora per dominarne l’economia o per sopravvivere. Le sue stratificazioni e le sue contraddizioni hanno generato in me il bisogno di una forma di esilio e di canto che in fondo sono le dimensioni da cui scrivo.
Il dottor Palasciano è un uomo che si scontra con le ingiustizie della storia, un paladino della generosità che paga amaramente questo suo essere. Quanto dobbiamo noi, oggi, a persone come lui?
Siamo in debito con uomini come Palasciano. Dovremmo accoglierne la saggezza, l’umanesimo, coltivarne la memoria. Questo grande medico ha combattuto per l’ideale della “cura”, per l’educazione e la giustizia, le uniche battaglie concepibili per il progresso dell’uomo.
Nel romanzo la dimensione del tempo non è lineare, ma intersecata su vari piani, in linea con la grande lezione dei narratori primonovecenteschi. Penso a Virginia Woolf, a Joyce, a Svevo. Quali scrittori hai amato e ami leggere?
Il tempo è il protagonista del romanzo. Non poteva essere lineare perché è il tempo della memoria soggettiva, del sentimento e delle pieghe della psiche. Fatto di schegge, frammenti, onde. E certo, dietro una tale percezione del tempo, c’è la lezione di Bergson, di narratori come Virginia Woolf, Joyce, Svevo, Beckett, Bufalino, Consolo. L’elenco sarebbe troppo lungo. Ho amato i classici della letteratura russa, tedesca, americana e sudamericana, tanta scrittura teatrale e narratrici come Christa Woolf, Natalie Serrault a Clarice Lispector. Mi hanno incantato le pagine di Simone Weil, Maria Zambrano e Simone de Beauvoir.
Sei stata definita “un’artigiana della parola”: è vero che scrivi ancora a mano?
L’ho detto io, in verità, che mi considero un’artigiana della parola. Riempio il rigo come un contadino che scava solchi in un campo. Non dimentico mai che la parola è “attraversamento”, riconfigura l’esperienza di vita e i moti della mente, mima le voci interiori. È vero, scrivo a mano o su una Olivetti 32. Cosa che mi aiuta a sostenere la ritmica del testo.
“L’esistenza era fatta di tempo perduto e di tempo da recuperare”: un tuo pensiero magnifico con cui chiudo questo nostro dialogo e sul quale ti chiedo una riflessione.
Sì, l’esistenza è fatta di tempo perduto e tempo da recuperare. Perché tutti andiamo alla ricerca del senso del tempo. Che non esiste. È soltanto la nostra tensione (gioiosa o drammatica) a “significare”.
Nella sua ultima intervista così diceva Mario Vargas Llosa, recentemente scomparso all’età di ottantanove anni “mi spaventa la stupidità umana: alimenta fanatismo e razzismo”. Lo scrittore di Arequipa, intimamente e profondamente peruviano ma apertamente cosmopolita, ha attraversato buona parte del Novecento da protagonista. Sui sentieri già marcati da Gabriel Garcia Marquez e da Jose Luis Borges, ossia da quella generazione aurea della letteratura latinoamericana degli anni Sessanta, ha dimostrato che la letteratura possiede una immensa forza morale e non concepiva un mondo senza romanzi.
Ribelle, inquieto e combattivo, Vargas Llosa imbracciò il vessillo dell’anticonformismo, fondando persino un partito liberale e sostenendo la destra dopo anni di vicinanza ai movimenti della sinistra sudamericana, per denunciare le storture e le ineguaglianze sociali che ha instancabilmente narrato. In tanti articoli infuocati denunciò ogni forma di totalitarismo, sia di destra sia di sinistra e si candidò per due volte alla Presidenza del Perù, perdendo contro il futuro dittatore Alberto Fujimori.
Nel 2010 quel Premio Nobel per la letteratura non se lo aspettava proprio, come simpaticamente spiegò tempo dopo, raccontando che all’alba, mentre stava preparando le lezioni per Princeton, vide entrare sua moglie, con una faccia strana e il telefono in mano. Restò turbato perchè una telefonata a quell’ora non lasciava presagire alcunchè di buono. Al telefono, tra brusii ed interferenze, non si capiva niente, ma poi riuscì a cogliere le parole della Swedish Academy. Proprio in quel momento cadde la linea: Mario e sua moglie si guardarono ancora increduli e muti finché il telefono squillò di nuovo e il Segretario Perpetuo dell’Accademia gli annunciò la vittoria.
“Per la sua mappatura delle strutture del potere e per le immagini incisive con cui ha dipinto la resistenza, la rivolta e la sconfitta dell’uomo”, così si legge nella motivazione dell’Accademia svedese. In quei suoi romanzi la letteratura trasforma il sogno in vita e la vita in sogno e varca il campo minato dalle ideologie superando ogni schematismo.
Insomma, uno scrittore di quelli che sanno aprire le menti e i cuori, ridefinendo i contorni della lettura e del modo di essere “libro”, facendo confluire nei romanzi l’intera esperienza umana per dar voce alla totalità dell’esistenza.
Domani, martedì 25 marzo 2025, alle ore 18, in via Matteotti 41 a Caivano (Napoli), si terrà l’evento dal titolo “Dantedì” organizzato dall’associazione culturale “Spazio Libero Caivano”.
“Spazio Libero” è una neo associazione nata agli inizi di gennaio grazie a un gruppo di cittadini caivanesi (professionisti, docenti, impiegati) che hanno voluto, così, lanciare un messaggio di speranza e di rinascita.
“Cultura, Arte, Passione, Attualità. Quattro parole per raccontare un evento che rende omaggio a Dante in modo coinvolgente e interattivo. Tra opere ispirate alle suggestive ambientazioni dantesche, prenderanno vita dialoghi, performance e riflessioni contemporanee per riscoprire il Sommo Poeta con occhi nuovi”, questo l’annuncio di “Spazio Libero Caivano” sui propri canali social in cui invita ad accorrere nel pomeriggio di domani presso la propria sede.
Interverranno Simona Laurenza e Antonio Vitale. Esporranno Giuseppe Argiento, Elisa Lanna e Andrea Mennillo. Sarà la Dottoressa Mara Parretta a moderare. Relazionerà, invece, il professore Rocco Cagnazzo.