L’attrice Bianca Nappi: “Ogni attrice vorrebbe interpretare Marietta, grande sintonia con Luisa Ranieri”
di Monica CARTIA
Bianca Nappi è un’attrice di razza che spazia tra teatro, televisione e cinema. Un talento precoce il suo, che l’ha portata a calcare le scene sin da giovanissima e ad intraprendere una fulgida carriera apprezzatissima da pubblico e critica.
In questo periodo Bianca ha ricevuto grandi apprezzamenti per il suo ruolo nella bella serie televisiva Le indagini di Lolita Lobosco, nella parte della migliore amica della protagonista. Bianca ha dato vita ad una donna forte e libera, un magistrato con mille sfumature psicologiche, brillante, vitale e spregiudicata. Una donna felicemente libera.
Bianca, quanto c’è di te in Marietta?
Oddio, siamo donne abbastanza diverse! Di mio ho cercato di dare a Marietta la voglia di alleggerire e ironizzare sulle cose della vita, elementi d’altra parte già presenti nei romanzi di Gabriella Genisi, da cui è tratta la serie. Marietta poi è il classico personaggio che ogni attrice vorrebbe interpretare; una donna libera dalla battuta pronta, distante da facili cliché… Insomma, una boccata d’aria fresca!
Tu credi nell’amicizia?
Con Luisa Ranieri abbiamo trovato molto facilmente la giusta complicità per dar vita a questo duo di amiche, molto diverse da loro ma forse proprio per questo profondamente unite. E sono felice che il pubblico abbia apprezzato la nostra sintonia. Per me l’amicizia è un sentimento fondamentale e anche qualcosa di molto serio. Nel tempo ho compreso come ci voglia davvero tanto tempo per poter definire vera un’amicizia, ma allo stesso tempo sono sempre molto aperta ai nuovi incontri, che possono rivelarsi preziosi anche se più recenti.
Bianca, hai avuto l’onore di lavorare con il grande regista Ferzan Ozpetek. Hai recitato in ‘Un giorno perfetto’, in ‘Mine Vaganti’ ed in ‘Magnifica presenza’. Com’ è stato l’approccio con la personalità di Ozpetek? Quanto hai imparato in quei set?
Come ho avuto modo di dire già in altre occasioni, l’incontro con Ferzan Ozpetek è stato fondamentale nella mia vita professionale perché mi ha dato per la prima volta occasioni importanti e concrete. Sui set di Ferzan ho imparato tanto e di questo mi sento molto fortunata, perché è un regista che offre molto spazio ai suoi attori, che quindi si sentono protetti e stimolati a dare il meglio.
Come hai affrontato il lockdown?
Il lockdown e questo periodo complicato credo di averli vissuti e viverli come molti, sospesa fra timori e ottimismo. Sono in attesa come molti del vaccino, l’unica soluzione possibile, ma nel frattempo continuo a vivere al meglio la mia vita, ritagliandomi spazi di libertà per quel che è possibile. E poi evito di leggere troppo i giornali, che spesso fanno terrorismo psicologico e basta.
Quanti sogni hai nel cassetto? Con quale regista vorresti lavorare?
Di sogni nel cassetto ne ho tantissimi! Mi piacerebbe recitare in un progetto internazionale, tornare a poter fare teatro in modo continuativo e tanto altro. Se devo fare il nome di un regista italiano con cui mi piacerebbe molto lavorare in questo momento, dico sicuramente Donato Carrisi; un autore e un regista con un grande stile, che fa un genere che per me è sempre stato il genere per eccellenza e con il quale adorerei lavorare.
Grazie, carissima Bianca, per aver raccontato di te a Minformo.
Venerdì 10 maggio, alle ore 19, presso Spazio Libero (via Giacomo Matteotti, 41) a Caivano, in occasione della Festa di Campiglione, si terrà la presentazione del libro “I piedi del mondo – Come le scarpe Nike hanno rivoluzionato l’immaginario collettivo” scritto da Tommaso Ariemma.
Un incontro tra cultura, estetica e società contemporanea: Tommaso Ariemma, scrittore e professore di Estetica presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce, presenta il suo ultimo libro, un’indagine originale su come un oggetto di uso comune – la scarpa Nike – sia diventato simbolo globale, rivoluzionando l’immaginario culturale. Tra arte, media e identità, il Prof. Ariemma esplora i confini della corporeità contemporanea, uno dei suoi principali ambiti di ricerca insieme alla teoria dell’arte e dei media.
L’evento sarà moderato da Ilaria Bernardo, giornalista, social media manager e addetta stampa del WWF Napoli. Interverrà Francesco Caso, professore di filosofia presso il Liceo Federico Quercia di Marcianise.
Una serata pensata per riavvicinare la comunità caivanese alla cultura, attraverso un dialogo coinvolgente e attuale che unisce pensiero critico e linguaggi pop. Un’occasione per riflettere insieme su come gli oggetti raccontano chi siamo e come cambiano il mondo che abitiamo.
Una N a simulare un’onda marina, quella degli eventi che diffonderanno l’immagine di Napoli nel mondoin occasione dei suoi 2500 anni mettendo assieme e avvolgendo, proprio come fa un’onda, tutte le arti che fanno di Napoli una capitale: dalla cultura al teatro, dalla scienza al dialogo tra i popoli.
E’ il logo – affiancato dalla scritta Napoli Musa – che farà da sfondo al cartellone di eventi per il venticinquesimo centenario della fondazione di Napoli presentato oggi nel corso di una conferenza stampa in Prefettura.
Dalla mostra su Totò, una delle grandi maschere di Napoli, al volume che realizzerà la Treccani sulla cultura partenopea: sono tante le iniziative contenute in un programma che è ancora in evoluzione e che verrà integrato nelle prossime settimane con un secondo blocco.
Sette milioni di euro il budget messo a disposizione dal Governo. Quattro linee di indirizzo: cultura, diplomazia, impresa e internazionalizzazione.
Si parte il 26 e 27 maggio con il vertice Nato sulla sicurezza del Mediterraneo che aprirà ufficialmente le celebrazioni. A giugno l’Unesco ha scelto Napoli per la prima “Biennale dei Patrimoni” (5-6 giugno), iniziativa che si propone la tutela e la valorizzazione del patrimonio archeologico, anche subacqueo. Il 12 e 13 giugno al centro di produzione Rai di Napoli si terranno gli Abu Rai Days, una due giorni-evento con ottanta rappresentanti di emittenti di servizio pubblico, commerciali e altre organizzazioni che operano nel campo della comunicazione e dei media nell’area asiatica e del Pacifico.
A luglio, il 24, l’orchestra del San Carlo si esibirà a Yereva, in Armenia. Con gli artisti del San Carlo i solisti dell’Accademia Belcanto diretti da Riccardo Frizza inaugureranno il progetto Diffusioni, un percorso artistico che comprende musica sinfonica, celebri arie d’opera del patrimonio lirico, la tradizione teatrale partenopea e la danza. In ballo anche una iniziativa a Baku, capitale dell’Azeirbaigian gemellata con Napoli.
A settembre prende vita il progetto che si ispira agli studi e alle riflessioni di Benedetto Croce e si propone di ricostruire la storia della toponomastica napoletana tra il XIX e il XX secolo. Ottobre sarà il mese dell’omaggio a Totò con un fine settimana di 24 ore ininterrotte di spettacoli tra il 4 e il 5 ottobre, in cui si esibiranno venti compagnie teatrali. La manifestazione si terrà al Teatro di San Carlo e, tra uno spettacolo e l’altro, saranno proiettati filmati sulla Napoli cinematografica. In programma anche una mostra che sarà allestita a Palazzo Reale e che successivamente verrà portata negli 85 istituti italiani di cultura sparsi nel mondo.
Dialogo con Wanda Marasco, unica scrittrice campana nella dozzina dei finalisti del Premio Strega con il romanzo Di spalle al muro, edito da Neri Pozza.
Un dramma appassionato che scuote l’anima. Una storia scritta in una lingua di eccelsa bellezza, che scava nel profondo, con tratti barocchi e felici innesti di un dialetto che graffia.
La penna di Wanda Marasco palpita, commuove ed abbraccia. Per sempre.
Che valore ha oggi la scrittura?
Il valore della scrittura, credo, non è mai mutato nel tempo. É volontà di esprimersi, testimonianza, comunicazione. Da un libro necessario nasce una fluenza di pensiero e di creatività. Per me, ortesianamente, la scrittura è “casa”, è la dimensione attraverso cui ricreo miserie e bellezza della creatura umana.
Quando e come nasce l’idea di raccontare la storia di Ferdinando Palasciano, medico e senatore del Regno d’Italia, condannato a morte e poi graziato perché decise di curare anche i nemici in guerra?
L’idea di narrare la storia di Ferdinando Palasciano è nata molti anni fa mentre scrivevo Il genio dell’abbandono. Cominciai a studiare, a indagare. Scoprii che Palasciano, uomo profondamente etico, negli ultimi anni di vita era impazzito. In un certo senso quel racconto mi aspettava. La torre che lui fece erigere sulla collina di Capodimonte è un’immagine che ha accompagnato gran parte della mia vita, una “quinta dell’anima” come qualcuno ha detto. È stato naturale, dunque, scegliere di scrivere la storia di chi l’aveva abitata. Inoltre Ferdinando Palasciano e Gemito (lo scultore pazzo de Il genio dell’abbandono) avevano in comune alcune ferite, soprattutto la conflagrazione della mente causata da dolori e disillusioni.
Nel romanzo penetri a fondo le sfaccettature della psiche umana. Esiste un “metodo” per riuscirci così bene che hai fatto tu?
Il metodo per penetrare nella psiche umana viene dalle letture e dalle esperienze di vita. Nella realtà ho incontrato Chisciotte, Sigismondo, Amleto… Le loro angosce affiorano in tanti uomini, ogni volta che la vita diventa distorsione e illusa battaglia. E vengo dalle maschere del teatro, quelle che sanno come invertire la logica comune, che esprimono la lacerazione tra la ratio, il cuore e la realtà. Sono poi sostenuta da un’istintualità poetica che mi aiuta a scavare nella fragilità dell’uomo.
La storia è raccontata dalla moglie del medico, Olga Pavlovna, nobile russa trapiantata a Napoli. Nel suo personaggio si spalancano le pieghe dell’universo mentale ed emozionale femminile, anche quelle più arcane. Quanto c’è di te in Olga?
C’è molto di noi in ogni cosa che scriviamo. A Olga Pavlovna ho prestato parte della mia psiche. Le ho fatto narrare altezze e cadute, l’amore che confessa i desideri e le ferite. Ho completamente inventato la sua vita interiore e l’infanzia in Russia basandomi sulla memoria delle mie esperienze e dei grandi archetipi provenienti dalla letteratura e dal teatro.
Fa da sfondo al romanzo la città di Napoli del secondo Ottocento, ma anche vero theatrum mundi, proprio come è oggi. Che rapporto hai con la tua città?
Napoli, con la sua bellezza e le sue secolari piaghe, fa da sfondo al racconto. Questa città, luogo dei luoghi e allo stesso tempo un non-luogo, come spesso si dice, per me ha sempre rappresentato la meccanica di un inferno animato dall’idea del paradiso da distruggere. È un paese greve, macerato da chi lo divora per dominarne l’economia o per sopravvivere. Le sue stratificazioni e le sue contraddizioni hanno generato in me il bisogno di una forma di esilio e di canto che in fondo sono le dimensioni da cui scrivo.
Il dottor Palasciano è un uomo che si scontra con le ingiustizie della storia, un paladino della generosità che paga amaramente questo suo essere. Quanto dobbiamo noi, oggi, a persone come lui?
Siamo in debito con uomini come Palasciano. Dovremmo accoglierne la saggezza, l’umanesimo, coltivarne la memoria. Questo grande medico ha combattuto per l’ideale della “cura”, per l’educazione e la giustizia, le uniche battaglie concepibili per il progresso dell’uomo.
Nel romanzo la dimensione del tempo non è lineare, ma intersecata su vari piani, in linea con la grande lezione dei narratori primonovecenteschi. Penso a Virginia Woolf, a Joyce, a Svevo. Quali scrittori hai amato e ami leggere?
Il tempo è il protagonista del romanzo. Non poteva essere lineare perché è il tempo della memoria soggettiva, del sentimento e delle pieghe della psiche. Fatto di schegge, frammenti, onde. E certo, dietro una tale percezione del tempo, c’è la lezione di Bergson, di narratori come Virginia Woolf, Joyce, Svevo, Beckett, Bufalino, Consolo. L’elenco sarebbe troppo lungo. Ho amato i classici della letteratura russa, tedesca, americana e sudamericana, tanta scrittura teatrale e narratrici come Christa Woolf, Natalie Serrault a Clarice Lispector. Mi hanno incantato le pagine di Simone Weil, Maria Zambrano e Simone de Beauvoir.
Sei stata definita “un’artigiana della parola”: è vero che scrivi ancora a mano?
L’ho detto io, in verità, che mi considero un’artigiana della parola. Riempio il rigo come un contadino che scava solchi in un campo. Non dimentico mai che la parola è “attraversamento”, riconfigura l’esperienza di vita e i moti della mente, mima le voci interiori. È vero, scrivo a mano o su una Olivetti 32. Cosa che mi aiuta a sostenere la ritmica del testo.
“L’esistenza era fatta di tempo perduto e di tempo da recuperare”: un tuo pensiero magnifico con cui chiudo questo nostro dialogo e sul quale ti chiedo una riflessione.
Sì, l’esistenza è fatta di tempo perduto e tempo da recuperare. Perché tutti andiamo alla ricerca del senso del tempo. Che non esiste. È soltanto la nostra tensione (gioiosa o drammatica) a “significare”.