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Mavien cu mme

L’anima di Napoli, in pochi sanno dove fu nascosta, incredibile, raccontiamolo ai nostri figli.

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-Napoli- Nel mondo dell’esoterismo con il termine “uovo” (o meglio nel simbolo dell’uovo filosofico) ci si riferisce all’elemento alchemico dell’Athanor, piccolo contenitore di metallo o di un particolare vetro, utilizzato per la lenta trasmutazione degli elementi primari in metallo prezioso, ovvero in oro.  Gli esperimenti esoterici e magici avvenivano nel segreto di alcuni monasteri e anche sull’isolotto di Megaride si ha notizia della presenza di monaci alchimisti.

Uno degli edifici e dei simboli più noti della città di Napoli è il maestoso Castel dell’Ovo; vogliamo qui approfondire la conoscenza della famosa leggenda dell’uovo della sirena Partenope nascosto da Virgilio nei sotterranei di Castel dell’Ovo (prima chiamato Castel Marino), poiché da “quell’ovo pendevano tutti li facti e la fortuna del Castel Marino“… e quindi di Napoli stessa e di tutta la terra partenopea.

Secondo la leggenda, il castello non crolla grazie alla presenza dell’uovo.

La leggenda racconta che tanto tempo fa, nel mare di Napoli, vivevano delle sirene (metà donne e metà uccello) e tra queste vi era la sirena Partenope.

La sirena Partenope era una delle tre sorelle che, insieme a Ligia e Leucosia, tentarono con il loro canto melodioso di incantare e far naufragare Ulisse che, scaltramente, per resistere, si fece legare all’albero maestro della nave. Le tre sirene, prese dallo sconforto per il fallimento, si lasciarono, per così dire, andare alla deriva. La leggenda narra che Partenope rimase impigliata tra gli scogli di Megaride, e lì, prima di morire ed essere sepolta, depose un uovo.

Un giorno, il grande poeta latino Publio Virgilio Marone, da tutti considerato anche grande mago e taumaturgo, raccolse l’uovo della sirena in prossimità dell’isolotto di Megaride.

Virgilio, credendo che l’uovo raccolto fosse veramente magico e incantato, lo sistemò in una cameretta nei sotterranei di Castel Marino, mettendolo in una caraffa di vetro piena d’acqua protetta da una gabbia di ferro, ed appesa a una pesante trave di quercia. Per questa ragione il Castello fu poi chiamato dell’Ovo.

Secondo la leggenda, se l’uovo fosse stato ritrovato o se si fosse rotto, tutto il castello sarebbe sprofondato in mare ed una serie di sventure avrebbe colpito la città di Napoli.

Fino ad oggi nessuno ha ancora rinvenuto l’uovo e quindi, a tutt’ora, la leggenda tiene legati il destino dell’uovo unitamente a quello del Castello e dell’intera città di Napoli.

La collocazione nelle segrete dell’allora “Castel Marino” di un uovo magico equivaleva a mettere al sicuro e nascondere l’anima della città; dall’integrità di quest’uovo custodito in una caraffa di vetro, a sua volta racchiusa in una gabbia metallica, sarebbe dipeso il destino del popolo partenopeo.

La stanza in cui si trova quest’uovo, secondo altre fonti, si identifica con lo stesso ipogeo nel quale dovrebbe essere sepolta la sirena Partenope.

Un’ origine della nostra Città conosciuta da pochi e che potrebbe essere promossa dai Napoletani attraverso la vendita dell’ “uovo” del Castel dell’Ovo.

Sarebbe bello, perchè no, vedere qualche uovo sulle bancarelle di San Gregorio Armeno.

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Mavien cu mme

Lo avevo previsto e sono stata aggredita per aver anticipato tutto questo.

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Roma – Solo pochi anni fa nei bagni di Montecitorio riservati alle donne Luxuria, celebre icona vip Lgbt+ allora deputata, fu cacciata da una parlamentare che la invitò ad andare a quelli per i maschi. Si tratta di visioni da archiviare nel passato.  A dirlo è Alessandra De Santis, la cui storia di formazione professionale come architetto è tutta protesa sin dagli esordi a trovare la sintesi tra bellezza, normative, sicurezza e diritti. E le toilett*, con l’ormai nota schwa della declinazione neutra, perchè sono bagni per tutti, le vedremo presto. L’architettura è un’arte ed è espressione della sensibilità del singolo individuo e l’architetto trasforma in spazio costruito la realtà e la società in cui vive”, è la premessa da cui parte Alessandra De Santis, che aggiunge: “E’ anche uno strumento di comunicazione“. L’obiettivo che si è prefissata nella sua carriera è stato sempre quello di “sognare e vivere luoghi in cui le diversità fossero vissute come qualcosa di normale, in cui tutti potessero sentirsi accolti e fruirne. Spazi inclusivi come li definisce, in cui ha cercato sempre una sintesi per arrivare al “paradigma” tra il design inclusivo, le richieste di una società che cambia e le esigenze delle norme di sicurezza. E’ nato così, dopo qualche notte insonne, come lei stessa racconta, il progetto Inclusion: un modo nuovo di ridisegnare gli spazi per togliere ogni forma di discriminazione, differenza o barriera. L’architettura inclusiva infatti è estendibile a edifici complessi, aree aperte al pubblico o eventi e accompagna un modo diverso di vivere: prende forma così un’idea nuova di città. E’ in questa sfida d’avanguardia, marchio distintivo del lavoro di Alessandra De Santis e di tutto lo staff della società, che sta anche il progetto delle Toilett* “che non discriminano” le persone. Ed ecco qualche anticipazione in attesa di vederle dal vivo: “Forme e anche colori che siano una sorta di neutro“, luoghi che possano adattarsi alle necessità delle persone che ne usufruiscono: “Anche rispetto a limitazioni motorie transitorie o a disabilità non evidenti”. Quando mesi fa scrissi ed esternai questo mio desiderio, che oggi si realizza, fui additata da tante donne soprattutto, che permettetemi la presunzione, considero persone dal cervello piccolissimo e dal cuore arido.

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Calcio

Da Udine: “Fastidiosi i festeggiamenti del Napoli”. Nel giornalismo o si è sportivi o razzisti

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CASORIA – Questa osservazione è dettata dal mio disgusto nei confronti di una forma di razzismo verso i napoletani, proveniente da un senso di campanilismo oramai superato e medioevale, insito nelle coscienze di alcuni giornalisti della parte alta dello Stivale.

Ho avuto modo stamattina di leggere alcune affermazioni, da parte di un certo Stefano Pontoni, giornalista pubblicista dell’ordine del Friuli Venezia Giulia, affermazioni che mi lasciano perplessa per il tanto razzismo e soprattutto per le troppe parole buttate lì come fosse nulla, nei confronti del popolo napoletano.

I napoletani, secondo il giornalista, dovrebbero stare attenti a non sporcare Udine, a non essere troppo entusiasti per una vittoria ambita da anni, a non concedere troppe interviste perché sempre a detta del Signor Stefano Pontoni, se ne stanno sprecando troppe.

Il giornalista afferma apertamente di essere infastidito dal Napoli che non è la sua squadra (e direi menomale), non ritiene giusto che la squadra festeggi la vittoria nel suo stadio, non mi sembra che chi assiste alla partita di stasera allo stadio abbia pagato a lui il biglietto.

Non è questione di odio aggiunge, ma di fede e di rispetto dei colori della sua terra, e chi glieli sta togliendo? Mica ci vogliamo portare i suoi colori a casa, noi abbiamo l’azzurro: quello del mare e del cielo. A proposito di cielo, ho letto la parola fede. Che tipo di fede sarebbe, una di quelle per la quale ancora oggi puntiamo il dito ai napoletani?

L’udinese, aggiungo, sempre in risposta al “Non A Casa mia”, non gioca per difendersi una casa ma per l’amore dello sport che nelle parole del Pontoni non riesco a trovare, neanche mettendomi di impegno. Lo stesso che afferma di essere “sportivamente” infastidito dai napoletani.

Poi a fine discorso si defila dicendo di confidare nell’intelligenza di entrambe le tifoserie, intanto ha discriminato i napoletani, lo ha fatto tra le righe da giornalista dedito all’uso della semantica ed io che amo la Comunicazione l’ho letta tutta, la sua discriminazione nei confronti del Napoli e del suo prossimo trionfo.

È come se un bambino in vacanza nella bellissima Friuli Venezia Giulia, il gestore del campeggio e/o residence vacanze gli negasse la possibilità di festeggiare il suo compleanno – che ricade nello stesso arco temporale dell’organizzazione delle proprie ferie – con tanto di torta comunicando alla famiglia di festeggiare a casa propria al ritorno dalle vacanze. Insomma. Se non è razzismo questo, allora ditemi cosa lo è!

E dire che nel 2014 il giornalista di cui sopra a mezzo Facebook scriveva “Il razzismo dell’Italia non è nei confronti degli immigrati ma nei confronti dei propri cittadini”. Come volevasi dimostrare. Il suo animo razzista l’ho carpito sin da subito.

Nella vita bisogna prendere posizione o si è sportivi o si è razzisti. A voi le considerazioni.

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Mavien cu mme

Un disturbo nei bambini altamente sminuito. Non sono semplici fissazioni…attenzione.

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È lui la prima vittima del disturbo, da qui che occorre partire per uscire dalla trappola del disturbo, è questo l’elemento dal quale non si può prescindere: fino a quando il familiare partecipa attivamente o passivamente alla sintomatologia, o cerca di contrastarla aggredendo e criticando il proprio caro, il disturbo si rafforza e il clima relazionale in casa si inasprisce. Come superare dunque le difficoltà che ostacolano l’uscita del familiare dalla trappola del disturbo? Possiamo distinguere due situazioni tipo, che comportano livelli diversi di difficoltà: la prima si caratterizza per una partecipazione attiva ai sintomi del paziente, la seconda per un coinvolgimento passivo del familiare. Nella prima il familiare lava, ad esempio, le mani con un disinfettante, o controlla una porta, o porge un guanto prima del contatto con i soldi, o sistema degli oggetti secondo un dato ordine, o recita ad alta voce una certa formula: tutto per assecondare o prevenire una richiesta del paziente. Nella seconda non partecipa attivamente, ma è costretto a subire il sintomo con tutti i suoi effetti molesti: è ad esempio vittima dei ritardi causati dalla lentezza ossessiva, o del fatto di trovare la porta del bagno sempre chiusa, o di sentire i rumori notturni dovuti ai controlli ripetuti dei rubinetti e delle serrature. Sebbene nella realtà quotidiana delle famiglie con un membro affetto da DOC i due tipi di coinvolgimento si mescolino e sia a volte difficile separarli in modo netto, la loro distinzione resta fondamentale e comporta strategie terapeutiche diverse.

Forse, come suggerisce Cartesio, la persona che riesce ad abbandonare ogni dubbio considerandolo portatore di falsità, a favore di un processo di conoscenza che si concentri sull’essere e non sul “potrebbe essere” si libera e si ritrova in quel modo d’essere del “penso, dunque sono” e allora non ha più senso “cosa penso” (inteso come mero e meccanico controllo ossessivo) e acquista valore il meccanismo del pensare in quanto tale. Non i contenuti ma il processo del pensare.

Nel caso del DOC, i sintomi sono la strategia che la persona usa per fronteggiare il senso di Colpa e di Responsabilità, generalmente causati da eventi traumatici o da una storia di sviluppo caratterizzata da genitori (o altre figure di riferimento) altamente colpevolizzanti.

Guarire dal DOC però non è impossibile: negli ultimi anni la ricerca scientifica applicata alla psicologia ha permesso di individuare dei modelli di trattamento sempre più efficaci che comprendono la combinazione di più tecniche terapeutiche, in primis l’Esposizione con Prevenzione della Risposta.
Come per gli altri disturbi, anche per il DOC l’elemento fondamentale per il trattamento è la relazione terapeutica, indipendentemente da modelli e tecniche di riferimento.

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