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Mavien cu mme

Ecco di cosa soffrono i percettori del reddito di cittadinanza.

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-Napoli- Non tutti lo sanno, ma hanno una paura anticipatoria di qualcosa che riguarda il futuro. Soffrono di una vera e propria patologia. Ergofobia da considerarsi come il “Ritiro Sociale” adolescenziale.

Il ritiro è accompagnato da vissuti di vergogna, confusione e può portare ad un grande disinvestimento delle proprie risorse e nelle relazioni interpersonali.

Si avverte di non farcela, il lavoro per queste persone andrebbe rivisto, a partire dalla gestione del tempo e dei compiti.

Le aspettative da parte delle organizzazioni devono essere ragionevoli per garantire il benessere psicologico.

Un pò come si fa per i detenuti con il loro reinserimento in società

Solo quando si sta bene si lavora meglio.

Come per le altre fobie la paura del lavoro è legata alla storia di ognuno di noi.

Una scarsa considerazione di è, un fallimento. Bisogna trovare il proprio posto nella società.

Mancanza di fiducia in se stessi , paura delle responsabilità e rifiuto degli obblighi imposti dalla società ci allontanano da essa.

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Mavien cu mme

Lo avevo previsto e sono stata aggredita per aver anticipato tutto questo.

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Roma – Solo pochi anni fa nei bagni di Montecitorio riservati alle donne Luxuria, celebre icona vip Lgbt+ allora deputata, fu cacciata da una parlamentare che la invitò ad andare a quelli per i maschi. Si tratta di visioni da archiviare nel passato.  A dirlo è Alessandra De Santis, la cui storia di formazione professionale come architetto è tutta protesa sin dagli esordi a trovare la sintesi tra bellezza, normative, sicurezza e diritti. E le toilett*, con l’ormai nota schwa della declinazione neutra, perchè sono bagni per tutti, le vedremo presto. L’architettura è un’arte ed è espressione della sensibilità del singolo individuo e l’architetto trasforma in spazio costruito la realtà e la società in cui vive”, è la premessa da cui parte Alessandra De Santis, che aggiunge: “E’ anche uno strumento di comunicazione“. L’obiettivo che si è prefissata nella sua carriera è stato sempre quello di “sognare e vivere luoghi in cui le diversità fossero vissute come qualcosa di normale, in cui tutti potessero sentirsi accolti e fruirne. Spazi inclusivi come li definisce, in cui ha cercato sempre una sintesi per arrivare al “paradigma” tra il design inclusivo, le richieste di una società che cambia e le esigenze delle norme di sicurezza. E’ nato così, dopo qualche notte insonne, come lei stessa racconta, il progetto Inclusion: un modo nuovo di ridisegnare gli spazi per togliere ogni forma di discriminazione, differenza o barriera. L’architettura inclusiva infatti è estendibile a edifici complessi, aree aperte al pubblico o eventi e accompagna un modo diverso di vivere: prende forma così un’idea nuova di città. E’ in questa sfida d’avanguardia, marchio distintivo del lavoro di Alessandra De Santis e di tutto lo staff della società, che sta anche il progetto delle Toilett* “che non discriminano” le persone. Ed ecco qualche anticipazione in attesa di vederle dal vivo: “Forme e anche colori che siano una sorta di neutro“, luoghi che possano adattarsi alle necessità delle persone che ne usufruiscono: “Anche rispetto a limitazioni motorie transitorie o a disabilità non evidenti”. Quando mesi fa scrissi ed esternai questo mio desiderio, che oggi si realizza, fui additata da tante donne soprattutto, che permettetemi la presunzione, considero persone dal cervello piccolissimo e dal cuore arido.

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Calcio

Da Udine: “Fastidiosi i festeggiamenti del Napoli”. Nel giornalismo o si è sportivi o razzisti

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CASORIA – Questa osservazione è dettata dal mio disgusto nei confronti di una forma di razzismo verso i napoletani, proveniente da un senso di campanilismo oramai superato e medioevale, insito nelle coscienze di alcuni giornalisti della parte alta dello Stivale.

Ho avuto modo stamattina di leggere alcune affermazioni, da parte di un certo Stefano Pontoni, giornalista pubblicista dell’ordine del Friuli Venezia Giulia, affermazioni che mi lasciano perplessa per il tanto razzismo e soprattutto per le troppe parole buttate lì come fosse nulla, nei confronti del popolo napoletano.

I napoletani, secondo il giornalista, dovrebbero stare attenti a non sporcare Udine, a non essere troppo entusiasti per una vittoria ambita da anni, a non concedere troppe interviste perché sempre a detta del Signor Stefano Pontoni, se ne stanno sprecando troppe.

Il giornalista afferma apertamente di essere infastidito dal Napoli che non è la sua squadra (e direi menomale), non ritiene giusto che la squadra festeggi la vittoria nel suo stadio, non mi sembra che chi assiste alla partita di stasera allo stadio abbia pagato a lui il biglietto.

Non è questione di odio aggiunge, ma di fede e di rispetto dei colori della sua terra, e chi glieli sta togliendo? Mica ci vogliamo portare i suoi colori a casa, noi abbiamo l’azzurro: quello del mare e del cielo. A proposito di cielo, ho letto la parola fede. Che tipo di fede sarebbe, una di quelle per la quale ancora oggi puntiamo il dito ai napoletani?

L’udinese, aggiungo, sempre in risposta al “Non A Casa mia”, non gioca per difendersi una casa ma per l’amore dello sport che nelle parole del Pontoni non riesco a trovare, neanche mettendomi di impegno. Lo stesso che afferma di essere “sportivamente” infastidito dai napoletani.

Poi a fine discorso si defila dicendo di confidare nell’intelligenza di entrambe le tifoserie, intanto ha discriminato i napoletani, lo ha fatto tra le righe da giornalista dedito all’uso della semantica ed io che amo la Comunicazione l’ho letta tutta, la sua discriminazione nei confronti del Napoli e del suo prossimo trionfo.

È come se un bambino in vacanza nella bellissima Friuli Venezia Giulia, il gestore del campeggio e/o residence vacanze gli negasse la possibilità di festeggiare il suo compleanno – che ricade nello stesso arco temporale dell’organizzazione delle proprie ferie – con tanto di torta comunicando alla famiglia di festeggiare a casa propria al ritorno dalle vacanze. Insomma. Se non è razzismo questo, allora ditemi cosa lo è!

E dire che nel 2014 il giornalista di cui sopra a mezzo Facebook scriveva “Il razzismo dell’Italia non è nei confronti degli immigrati ma nei confronti dei propri cittadini”. Come volevasi dimostrare. Il suo animo razzista l’ho carpito sin da subito.

Nella vita bisogna prendere posizione o si è sportivi o si è razzisti. A voi le considerazioni.

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Mavien cu mme

Un disturbo nei bambini altamente sminuito. Non sono semplici fissazioni…attenzione.

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È lui la prima vittima del disturbo, da qui che occorre partire per uscire dalla trappola del disturbo, è questo l’elemento dal quale non si può prescindere: fino a quando il familiare partecipa attivamente o passivamente alla sintomatologia, o cerca di contrastarla aggredendo e criticando il proprio caro, il disturbo si rafforza e il clima relazionale in casa si inasprisce. Come superare dunque le difficoltà che ostacolano l’uscita del familiare dalla trappola del disturbo? Possiamo distinguere due situazioni tipo, che comportano livelli diversi di difficoltà: la prima si caratterizza per una partecipazione attiva ai sintomi del paziente, la seconda per un coinvolgimento passivo del familiare. Nella prima il familiare lava, ad esempio, le mani con un disinfettante, o controlla una porta, o porge un guanto prima del contatto con i soldi, o sistema degli oggetti secondo un dato ordine, o recita ad alta voce una certa formula: tutto per assecondare o prevenire una richiesta del paziente. Nella seconda non partecipa attivamente, ma è costretto a subire il sintomo con tutti i suoi effetti molesti: è ad esempio vittima dei ritardi causati dalla lentezza ossessiva, o del fatto di trovare la porta del bagno sempre chiusa, o di sentire i rumori notturni dovuti ai controlli ripetuti dei rubinetti e delle serrature. Sebbene nella realtà quotidiana delle famiglie con un membro affetto da DOC i due tipi di coinvolgimento si mescolino e sia a volte difficile separarli in modo netto, la loro distinzione resta fondamentale e comporta strategie terapeutiche diverse.

Forse, come suggerisce Cartesio, la persona che riesce ad abbandonare ogni dubbio considerandolo portatore di falsità, a favore di un processo di conoscenza che si concentri sull’essere e non sul “potrebbe essere” si libera e si ritrova in quel modo d’essere del “penso, dunque sono” e allora non ha più senso “cosa penso” (inteso come mero e meccanico controllo ossessivo) e acquista valore il meccanismo del pensare in quanto tale. Non i contenuti ma il processo del pensare.

Nel caso del DOC, i sintomi sono la strategia che la persona usa per fronteggiare il senso di Colpa e di Responsabilità, generalmente causati da eventi traumatici o da una storia di sviluppo caratterizzata da genitori (o altre figure di riferimento) altamente colpevolizzanti.

Guarire dal DOC però non è impossibile: negli ultimi anni la ricerca scientifica applicata alla psicologia ha permesso di individuare dei modelli di trattamento sempre più efficaci che comprendono la combinazione di più tecniche terapeutiche, in primis l’Esposizione con Prevenzione della Risposta.
Come per gli altri disturbi, anche per il DOC l’elemento fondamentale per il trattamento è la relazione terapeutica, indipendentemente da modelli e tecniche di riferimento.

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